giovedì 15 gennaio 2015

Informazione d'autore


"Informazione d’autore". Sembra una contraddizione di termini. L’informazione parla di fatti. Un autore lavora di fantasia. Siamo sempre stati portati a credere che l’informazione non può intrinsecamente essere d’autore.

Da quando esiste il concetto moderno di informazione, questa è sempre stata concepita come il frutto di una prestazione professionale, cioè di un giornalista, che dovrebbe garantire l’”oggettività” della notizia, questo mito che rispetterebbe certi canoni tecnici sulla qualità dell’informazione.
Sono completamente in disaccordo su questa impostazione, poiché parto da una traccia completamente diversa. Un’informazione può essere data anche attraverso una sua elaborazione artistica.

L’osservanza delle famose cinque W della scuola giornalistica – Who, What, Where, When, Why (Chi, Cosa, Dove, Quando, Perché) – non è sufficiente ad elaborare una cronaca corretta. Piuttosto siamo davanti  ad una metodologia sistematicamente portata avanti per creare una procedura automatica disumanizzata, che nelle sue estreme conseguenze finisce col favorire un potere anonimo incontrollato. Il giornalista infatti sarebbe al di sopra delle debolezze umane. Egli si presenta come il traduttore distaccato di certi criteri oggettivi di lettura della realtà. Non sto parlando dei singoli giornalisti, ma della categoria stessa di Giornalismo.

E’ noto che è stata la tradizione anglosassone, quella che ha voluto codificare in questo modo le basi metodologiche su cui si è costruito l’odierno concetto di informazione giornalistica. L’ha fatto partendo dall’impostazione filosofica dell’empirismo inglese. Credere che un fatto sia un fatto e nient’altro che un fatto, per la semplice ed immediata evidenza che nasce dalla esperienza immediata, fa parte di quell’illusione di oggettività che ha condotto la società moderna alla crisi generale di valori che tutti stiamo subendo in questo momento.

In altre parole, si tratta dell’utopistica pretesa di escludere a priori il soggetto cosciente che osserva il mondo e, grazie al suo presunto distacco, esser capace di descrivere gli eventi col massimo dell’obiettività. Per questo si delega d una procedura tecnica esteriore, le cinque W, per escludere qualsiasi intervento parziale personale.

Tale errore di fondo, sebbene siano ancora molti ad incorrervi, sia tra gli operatori della comunicazione che tra il pubblico fruitore, non ha potuto evitare l’inevitabile, ovvero la nascita di una concetto di realtà assoluta dei fatti al di sopra di ogni critica e discussione. Come è sempre accaduto nella storia, quando si costituisce una dottrina dell’assoluto, c’è sempre poi un qualche potere che viene a gestirlo, quasi una sorta di chiesa. La novità dell’epoca moderna è che tale potere viene definito laico ed agisce nell’anonimato più sicuro, pur avendo la propria casta sacerdotale, alla quale appartengono, appunto, i giornalisti. Con tutti i privilegi annessi ad ogni casta di potere che si rispetti.

L’informazione, come qualsiasi vero atto di comunicazione, non può, invece, né potrà mai prescindere dall’intervento soggettivo di chi comunica. Si può tentare di escluderlo come e quanto si vuole, ma ci sarà sempre un Io cosciente che capta ed elabora pensieri soggettivi. Chi proclama ai quattro venti l’oggettività derivante dai dati empirici cade in errore, vuoi per ingenuità o perché mente sapendo di mentire.

Non è che l’oggettività non esiste, però la chiave per raggiungerla è nel soggetto non nell’oggetto. Cerchiamo di spiegarci meglio, prendendo come esempio un altro ambito.

Quando alla fine dell’Ottocento gli antropologi si trovarono di fronte alle cosiddette popolazioni “selvagge”, vissute fino ad allora nel più totale isolamento dal resto del mondo, con le quali non si possedeva il benché minimo elemento in comune, ci si trovò ad affrontare un dilemma rilevante. Come poter descrivere gli usi e costumi di questa gente se non sapevamo assolutamente niente di come loro concepivano la realtà?

Anche i “fatti” più elementari, come quello di cibarsi o di servirsi di certi strumenti, andavano al di là della capacità degli osservatori occidentali di comprendere i significati veri che costoro attribuivano alle cose che usavano e ai gesti che compivano. Ciò accadeva perché l’universo simbolico in cui tali popolazioni vivevano ci era del tutto estraneo.

Da qui nacquero diversi tentativi di codificare queste culture etnologiche con metodi che fossero il più “oggettivi” possibile. Un modo che potesse essere idoneo a non allontanarsi molto dalla pura descrizione di ciò che si osservava. Di nuovo siamo davanti al medesimo problema di cui parlavamo sopra.

L’esperienza di uno di questi antropologi, Claude Lévi-Strauss, è per noi estremamente chiarificante. Anche lui ha provato e formalizzare una metodologia tecnica di descrizione oggettiva delle culture “altre” che è stata chiamata “Strutturalismo”. Ovvero attraverso l’analisi esteriore delle relazioni sistemiche (le strutture, appunto) interconnesse con i fenomeni culturali che osservava, egli ha tentato di creare una procedura imparziale e assoluta di ciò che voleva descrivere. Uno sorta di cinque W dell’antropologia culturale.

Ma poi cos’è accaduto? Ha scoperto che il suo diario personale che ha scritto durante il viaggio compiuto in Amazzonia e in Mato Grosso negli anni ’30 del secolo scorso era capace di comunicare l’anima di quelle popolazioni molto di più di quanto non fosse possibile attraverso l’enunciazione di complesse teorie astratte strutturaliste.

In poche parole, un racconto personale della propria esperienza elaborata con creatività è il miglior modo per descrivere agli altri ciò che si osserva. Ed è anche il modo per toccare qualcosa che è presente oggettivamente all’interno di ciascuno di noi, in quanto tutti noi siamo esseri che vivono in una dimensione umana.

Un prodotto audiovisivo, come il documentario, che non è né un lavoro giornalistico, né di fiction, ma si colloca a metà fra i due, perché c’è un autore ben preciso che analizza razionalmente, certo, ma lo fa attraverso la propria intuizione, ispirazione e immaginazione, è la soluzione ideale di comunicare l’anima degli eventi all’anima del pubblico. Se andiamo oltre il linguaggio un po’ new age, ma che con la new age non ha niente a che fare, direi che questo tipo di comunicazione non passa solo attraverso la mente ma anche attraverso il cuore.

Il documentarista riprende con la telecamera ciò che osserva e lo racconta poi come fosse una sorta di diario di viaggio, senza la pretesa di dire la verità assoluta. Questo è il modo più onesto per cogliere il cuore degli eventi e trasmetterli al cuore di chi guarderà la sua opera. Sarà possibile allora che lo spettatore potrà farsi un’idea personale degli eventi perché può vedere in trasparenza chi è a raccontarglieli; potrà addirittura farsene un’idea opposta; ed è legittimato a farlo.

Ecco perché non esiste forma più eversiva del libero pensiero di un singolo individuo capace di esprimere la propria opinione!

Ecco perché il vero documentario d’autore non potrà mai andare d’accordo con qualsiasi dittatura, anche se si chiama “democrazia”!

Ecco perché oggi siamo immersi dalla mattina alla sera nei notiziari giornalistici e non capiamo veramente cosa sta accadendo nel mondo.

Ecco perché è scomparso ormai anche il giornalismo d’inchiesta e siamo sempre più vittime dell’ambigua sfera dell’Infotainment, quell’informazione intrisa di spettacolo, demagogica per definizione, ma che vuole conquistare maliziosamente quel cuore della gente che aveva voluto escludere!

Ecco perché di documentari d’autore in televisione non se ne vede neanche l’ombra, mentre abbiamo programmi e canali tematizzati di documentari anonimi realizzati da grandi strutture mediatiche, dirette emissioni dei potentati finanziari globali! I quali sedicenti documentari sono realizzati tecnicamente benissimo, grazie alle abbondanti risorse di cui dispongono, puntando sulla patinata qualità formale piuttosto che sui contenuti, che in genere risultano appiattenti e privi di qualsiasi spirito critico.

L’informazione d’autore, quando è ben fatta, è un mezzo efficacissimo di comunicazione e formazione delle menti, ed è troppo importante per lasciar cadere l'insistenza a denunciarne la scomparsa.

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